L’attività di estrazione del “tufo” riguardava un gran numero di “pirriaturi”, così come venivano chiamati in lingua locale gli addetti all’estrazione
Alcuni lavoravano in cave a cielo aperto, altri alla luce dell’acetilene in cave ipogee che si snodavano per centinaia e centinaia di metri nel cuore della terra; mentre dentro la roccia sedimentaria si muoveva un esercito di cavatori abilissimi e manovali, fuori vi erano carrettieri e marinai che esportavano il carico in terraferma con gli “schifazzi”, ovvero barche da trasporto.
Era una categoria di lavoratori così consistente che il Crocifisso, loro Santo protettore, divenne patrono dell’isola. Fu grazie al loro lavoro che si venne a formare questo “habitat pietriforme” che contraddistingue l’isola di Favignana.
La roccia veniva attaccata lateralmente con gallerie con il fine di raggiungere il materiale più pregiato, nonché il più profondo, per compattezza e grana. Altre volte si lavorava dall’alto in basso scavando, aggrappandosi con mani e piedi nelle tacche, “i scanneddi”, facendo attenzione di lasciare grandi pilastri, i “pileri”. È in questa tipologia di cave che si manifestava la bravura e la competenza del “pirriaturi” che era contemporaneamente operaio e ingegnere. Doveva rendersi conto di quanto poteva cavare per evitare crolli.
La lavorazione era basata sul cottimo, veniva pagato a seconda dei blocchi estratti perciò lavorava dall’alba al tramonto, portandosi spesso, per aiuto, appresso i figli dall’età di 8-10 anni. Il “pirriaturi” prendeva in appalto un terreno, iniziando a lavorarlo dal ” cappellaccio “, cioè dal calcare di pietra durissima superficiale; quindi cominciava il lavoro di estrazione dei blocchetti (conci) perfettamente squadrati in diverse misure a secondo l’utilizzo.
Mastro di pirrera o di mannara ‒ ha scritto Antonino Cusumano ‒ era chi sapeva identificare il migliore punto di attacco e individuare la disposizione degli strati “ascoltando” le risonanze delle battute sulla pietra, chi aveva l’occhio e l’orecchio tecnicamente addestrati a “sentire” i pieni e i vuoti della roccia. I conci di “tufo” non risultavano tutti idonei all’utilizzo nell’edilizia; infatti, a volte potevano essere lesionati internamente, pertanto al momento dello “scippamento” con il colpo di zappuni ascoltavano il rumore che emetteva: se questo rumore era tonfo, privo di vibrazioni, il concio era da scartare, mentre se il suono era un tintinnio armonico, come a sembrare un canto, il concio era promosso ad essere un “Cantuni”.